L’esperienza di Ilaria che insegna italiano ai migranti
Sono una volontaria di Alfabeti, associazione attiva da 20 anni nel quartiere di San Siro di Milano (uno dei più multietnici della città con circa il 40% di immigrati residenti) che si occupa di alfabetizzazione, integrazione e accoglienza dei migranti. Dal 1995 a oggi sono state sedute sui nostri banchi circa 5.000 persone tra alunni della Scuola Serale e alunne della Scuola Donne mattutina. Principalmente vengono da Egitto, Sri Lanka, Filippine, El Salvador, Marocco, Perù, Nepal, Senegal, Cina, India, Bangladesh, Ucraina.
Nella sola Lombardia, tanto per avere qualche riferimento, è residente un quarto della popolazione immigrata nel nostro Paese (circa 130mila persone). Qui il più recente (e completissimo) rapporto Istat sull’immigrazione.
In 70 volontari (dai 22 agli 81 anni, studenti, lavoratori e pensionati) insegniamo italiano gratuitamente a chi l’italiano non lo sa, o lo sa male, e ne ha bisogno per iniziare un nuovo pezzo di vita nel nostro Paese. Ad esempio, per non sentirsi a disagio perché non capisce quando gli parlano, per sapere che cosa dire al dottore quando sta male, per chiedere informazioni su come arrivare a un appuntamento o per scrivere un curriculum e fare un colloquio di lavoro. E, soprattutto, per avere delle parole a disposizione attraverso cui coltivare nuove relazioni.
Paghiamo tutte le spese e l’affitto della sede in cui teniamo le nostre lezioni: Aler ci chiede ben 9.000 euro l’anno per 60 mq più una cantina piuttosto fatiscenti e rimessi a posto da noi. Non pochi per il bilancio di una Onlus. Come ce la caviamo? Inventiamo di continuo attività di autofinanziamento: mercatini di libri usati, aperitivi, cene e concerti etnici per poter garantire agli studenti un servizio accessibile a costo zero.
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È difficile raccontare quante cose si possono imparare insegnando. Il modo migliore è procedere con disordine, con aneddoti sparsi e ritratti sfumati di alcuni degli alunni che ho conosciuto in questi 3 anni.
C’è Mohamed un ragazzo di 18 anni che viene dall’Egitto. Ha passato un anno a raccogliere frutta in Campania. A lui ho insegnato che nush in italiano non significa nulla. E lui a me che è l’unico modo per farsi capire a Napoli per parlare di noci. Gli ho raccontato come si prepara la pizza di cui va ghiotto, ma lui mi ha confessato di avere nostalgia solo dell’odore degli involtini di foglie di vite che prepara sua mamma rimasta in Egitto coi fratelli più piccoli.
C’è Amid, anche lui egiziano, sui 50 anni. Coltissimo e curiosissimo, ogni lezione cerca di stupirmi e di fare domande e collegamenti sorprendenti. Spesso ci riesce e ha delle intuizioni brillanti. Ad esempio un giorno, mentre leggiamo “I vestiti nuovi dell’imperatore”, incrociamo il verbo “mutare”. Gli spiego che significa “cambiare”. Lui mi fissa e d’improvviso chiede incredulo: ma mutande viene da lì?. E io, che di latino ricordo poco, annuisco pensando a come possa averlo ipotizzato.
C’è Consuelo, una giovane signora di origini peruviane. Fa la badante ed è orgogliosissima di prendersi cura di un anziano signore malato di Alzeheimer. Gli è grata perché in questi anni ogni giorno l’ha portata al bar a leggere il giornale e bere il caffè. E, quando il tempo lo permetteva, hanno passato insieme lunghi pomeriggi seduti sulla panchina di un parco a fare le parole crociate.È così che ho imparato la vostra lingua, e tutte le sigle delle province italiane mi ha detto scherzando alla prima lezione
Poi c’è Abdul che viene dall’Afghanistan. Mi ha raccontato che prima della guerra, una ventina d’anni fa, tutti i bambini venivano portati a vedere le enormi statue di Bamiyan dalle loro famiglie. La valle è magica e, si dice, verso l’imbrunire le satue sembravano animarsi: gli occhi si riempivano di riflessi, per questo il posto era conosciuto come “luogo di luce”. Forse – ha aggiunto – in mia assenza avrà cambiato nome. O forse no, considerato che sono rinati in una nuova, indistruttibile forma.
Infine, ci sono una mamma e un figlio che vengono dalle Filippine e che si chiamano per diminutiviBayani (Bay) e Bituin (Bity). Parlano pochissimo e sorridono molto. Mi hanno spiegato che al loro paese quando qualcuno ti chiede qualcosa per strada è obbligatorio accoglierlo sorridendo, come a dimostrargli che non vi sta dando fastidio. Magari anche qui fosse così, hanno aggiunto. A loro ho spiegato le formule di cortesia e mi hanno chiesto: perché le persone che non ci conoscono allora ci danno sempre direttamente del “tu”? Non ho saputo rispondere.
Giovanna Cosenza
Categories: Segnalazioni
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