Migranti – Valigia Blu

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La storia triste di Aron che correva la mezza maratona di Genova

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Sei fuggito dal tuo paese dilaniato dalla guerra civile, hai attraversato a piedi il
deserto e un paio di stati in conflitto, rischiando la vita a giorni alterni.

Finalmente la Libia, meta del tuo viaggio. Appena arrivato, sei stato arrestato senza
troppi complimenti e detenuto nel carcere-lager di Al Khofra sul confine sud
orientale, costruito con finanziamenti pubblici italiani. Di quei sei mesi proprio non
hai mai voluto parlare.

Alla fine sei stato liberato e hai cominciato a lavorare. Non so se davvero costruivi
strade, come hai dichiarato, o facevi il mercenario. A ogni buon conto, guadagnavi
abbastanza per vivere e mandavi anche qualche soldo a casa, dove erano rimasti tua
mamma e i tuoi fratelli più piccoli.

Non c’era troppa libertà in Libia, ma circolava una gran quantità di denaro e alcuni
governi europei dimostravano una certa deferenza per il folle dittatore e per i suoi
pozzi di petrolio. A te non è mai importata la politica. Chi nasce nella parte sbagliata
del mondo ha il vezzo di dare la precedenza a quello che gli occidentali colti
chiamano la soddisfazione dei bisogni primari.
Poi tutto è finito con la Primavera Araba e i sussulti di libertà che hanno scosso il
Nordafrica.

Ti sei trovato in mezzo a un’altra guerra.
Un giorno gli uomini di Gheddafi hanno preso te e tanti altri come te, immigrati dal
Ghana, dal Sudan, dalla Nigeria, vi hanno strappato i documenti, le carte di credito e
vi hanno imbarcati su un gommone. Non hai avuto scelta, qualcuno ha lanciato i dadi
per te, ma hai avuto fortuna.

Al centro di accoglienza di Lampedusa, eravate stipati come animali in pochi metri
quadrati, divisi per nazionalità e trattati un po’ come nel carcere di Al Khofra, ma
senza le torture e chissà che altro avevi già provato.
Con il trasferimento successivo a nord, hai cominciato a sperare che ci sarebbe stata
un’altra possibilità per te.

Eri ospitato con altri profughi in una struttura della Croce Rossa in attesa del
permesso di soggiorno umanitario. Nei mesi di permanenza nel piccolo paese
dell’appennino, hai studiato l’italiano e con l’aiuto di qualche brava persona, una
volta ottenuti i documenti, hai trovato un lavoro e una casa.
Sorridevi fiero, ce l’avevi fatta. Eri il testimonial perfetto della buona integrazione.
La tua storia un esempio da mostrare.

In rete c’è una bella foto che ti ritrae alla Mezza Maratona di Genova, si perché eri
iscritto alla Società di Atletica e dopo il lavoro al panificio, andavi a correre in pista o
sulle strade della valle. Ti eri allenato per bene, per non lasciare nulla al caso.
Preparazione, buona alimentazione, essere parte di un gruppo. Un perfezionista, a
modo tuo.
Qualche volta sei riuscito a telefonare a casa. Che idea balzana lasciare tutto questo
per Londra. Eppure tua madre insisteva per farti raggiungere la comunità sudanese
oltremanica, imponendoti insensatamente di partire senza documenti e senza denaro
ed entrare da clandestino in Gran Bretagna. Lei ha preso i contatti, alle tue resistenze
è arrivata a minacciarti.
Non hai avuto il coraggio di affrontare chi in questi ultimi anni si è preso cura di te e
ti pregava di restare, così hai fatto la telefonata che già eri oltre il confine francese.
– Stai attento – è stata la raccomandazione che hai ricevuto durante l’ultima telefonata
da Calais.
Poi hai lanciato i dadi.

Ti sei legato con una fune robusta allo chassis del camion che, inconsapevole, ti
avrebbe portato in Inghilterra. Qualcosa è andato storto. Sei caduto dal tuo
nascondiglio finendo sotto le ruote del pesante mezzo in movimento, all’imbarco del
traghetto per Dover.
Nella notte il telefono è squillato ancora.
Un funzionario della Gendarmerie ha chiamato l’ultimo numero sul tuo cellulare per
informare dell’incidente e della morte di un giovane immigrato non identificato.
Il caso è accadimento puro, ha scritto qualcuno. Non serve cercare un senso in un
lancio sbagliato dei dadi.


Segnalato da:
Mara Sordini

Categories:   Segnalazioni

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